Vi proponiamo di leggere questo articolo dell’Airc (associazione Italiana ricerca sul cancro):

La vitamina D è una molecola chiave per la salute.
È una vitamina con un ruolo di primo piano nel regolare molti processi fisiologici. L’uso nella terapia contro Covid-19 è stato ipotizzato da alcuni studi, ma mancano solide conferme.

AIRC – Rendiamo il cancro sempre più curabile.

La vitamina D è una molecola chiave per la salute.
È una vitamina con un ruolo di primo piano nel regolare molti processi fisiologici. L’uso nella terapia contro Covid-19 è stato ipotizzato da alcuni studi, ma mancano solide conferme.

In questo articolo risponderemo alle domande:

  • Cos’è la vitamina D?
  • Come la si assume?
  • Quali aspetti della salute influenza?
  • Cosa sappiamo della relazione tra vitamina D e i tumori?
  • Cosa dicono i ricercatori sulla possibilità di usare la vitamina D per contrastare Covid-19?

Le ricerche sulla vitamina D e il suo ruolo nella salute umana sono iniziate oltre un secolo fa e nel corso del tempo hanno permesso di scoprire legami inaspettati tra carenze di questo composto nel nostro organismo e lo sviluppo di numerose patologie. Inoltre, l’interesse dei ricercatori e dei media si è ulteriormente concentrato su questo argomento nell’ultimo anno, complice la pandemia di coronavirus e il potenziale impatto dei livelli di vitamina D sulla risposta a Covid-19.

La vitamina “del sole”
Con il termine vitamina D si identifica in realtà un gruppo di molecole (pro-ormoni), presenti soprattutto sotto forma di ergocalciferolo (vitamina D2) e colecalciferolo (vitamina D3). La forma attiva della vitamina (calcitriolo o 1,25-diidrossivitamina D) si lega a un recettore specifico presente sulla superficie delle cellule e può così svolgere la propria azione, collegata soprattutto – ma non solo – al buon funzionamento del metabolismo delle ossa.

Il recettore non si trova solo a livello delle cellule dell’apparato scheletrico, ma anche in molti altri tipi cellulari, da quelli del sistema immunitario a quelli di stomaco, rene, prostata e cervello. Non c’è quindi da stupirsi se gli effetti della vitamina D interessino così tanti aspetti della salute umana.

Le differenze con le altre vitamine emergono però quando si pensa alla fonte primaria della molecola. La quantità di vitamina D contenuta negli alimenti è infatti scarsa, mentre secondo le stime dell’Istituto superiore di sanità, il 90 per cento del fabbisogno di questo composto si ottiene grazie all’esposizione al sole.

Su questo punto restano però ancora molti dubbi da chiarire. Innanzitutto bisogna tener conto del fatto che l’effetto benefico dell’esposizione al sole, e di conseguenza la sintesi di vitamina D da parte dell’organismo, non è sempre uguale, ma dipende da numerose variabili, come per esempio l’ora in cui ci si espone, la latitudine, l’età, il colore della pelle, l’uso di creme solari – sempre fondamentale per aiutare a prevenire eventuali malattie dell’epidermide – e molto altro ancora. Inoltre, lo stile di vita moderno, che prevede sempre meno ore trascorse all’aperto anche per i bambini, non stimola la formazione della vitamina D e rende la carenza piuttosto comune.

Né troppa né troppo poca
A complicare il quadro c’è il fatto che non tutte le società scientifiche concordano sulle soglie di vitamina D da considerare minimamente “ottimali” (e che si misurano con un prelievo di sangue e il controllo dei livelli di 25(OH)D). In Italia i valori comunemente valutati come ideali sono quelli compresi tra 20 e 40 ng/mL, mentre al di sotto di tale soglia si pensa sia opportuno correre ai ripari, cambiando le proprie abitudini quotidiane e alimentari o, come ultima risorsa, facendo ricorso a eventuali integratori.

Come già anticipato, dalla dieta possiamo ottenere solo un piccolo aiuto per aumentare i livelli di vitamina D: tra i cibi che ne sono più ricchi ci sono alcuni pesci con elevato contenuto di grassi (come il salmone), l’olio di pesce, il tuorlo d’uovo o alcuni alimenti addizionati, come latte e cereali.

Assumere una quantità maggiore di questi prodotti, all’interno sempre di un’alimentazione varia ed equilibrata, è in genere privo di rischi, mentre prima di ricorrere a integratori è fondamentale parlare con il medico: non solo sono raramente necessari, ma possono anche interferire con l’effetto di alcuni farmaci piuttosto comuni (alcuni diuretici o farmaci per ridurre il colesterolo).

Oltre alle ossa c’è (molto) di più
La vitamina D è essenziale per la salute dell’apparato scheletrico, poiché serve ad assorbire il calcio, elemento prezioso per avere ossa forti. “La carenza di vitamina D però non ha solo un impatto negativo sulla salute dello scheletro, ma secondo alcuni potrebbe anche facilitare anche lo sviluppo e la progressione di molte ‘malattie della civilizzazione’, come disturbi cardiovascolari, diabete, malattie autoimmuni e cancro” si legge in un recente articolo pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences.

Numerosi studi hanno dimostrato che la vitamina D migliora la densità minerale delle ossa, aiuta a prevenire le fratture negli anziani e nelle donne dopo la menopausa ed è anche fondamentale per sostenere il corretto sviluppo dei più piccoli. La densità ossea ottimale comunque si costruisce soprattutto durante l’arco dell’intera vita, anche attraverso l’esercizio fisico, per cui il ricorso a integratori resta un argomento controverso tra i medici e i ricercatori.

Altri studi hanno suggerito invece un legame tra bassi livelli di vitamina D e sviluppo di problemi cardiovascolari o aumento del rischio di sclerosi multipla nelle donne. I ricercatori stanno valutando il potenziale ruolo della vitamina D anche nella prevenzione e cura dell’influenza stagionale e nello sviluppo di alcune malattie autoimmuni (diabete di tipo 1, lupus eritematoso sistemico) e neurologiche (Parkinson, Alzheimer).

Infine, ma non certo meno importante, si sta studiando il legame tra vitamina D e microbiota intestinale, l’insieme dei microbi che popolano l’intestino.

In tutti questi casi, però, non vi sono ancora prove scientifiche a sufficienza per sostenere l’uso regolare di integratori.

Vitamina D e cancro: tanti dati, non sempre chiari
“La luce del sole e la vitamina D riducono la probabilità di ammalarsi di tumore del colon?” Sono passati 40 anni da quando due ricercatori si sono posti questa domanda sulle pagine dell’International Journal of Epidemiology. Da allora le ricerche sul legame tra vitamina D e cancro non si sono fermate ma, nonostante il grande lavoro svolto dai ricercatori, in quasi tutti i casi non è ancora possibile giungere a conclusioni definitive.

Studi di laboratorio hanno dimostrato che la vitamina D è coinvolta in processi importanti anche per lo sviluppo e la progressione di tumori, come l’infiammazione, la crescita cellulare, il metabolismo del glucosio e il funzionamento del sistema immunitario. Inoltre, molti geni che regolano la proliferazione, la differenziazione e la morte programmata (apoptosi) delle cellule sono modulati almeno in parte dalla vitamina D.

Ma se in laboratorio e negli animali di laboratorio il ruolo positivo di questo composto nella prevenzione e nel controllo dei tumori è sembrato piuttosto evidente, negli esseri umani gli studi intrapresi hanno prodotto risultati contrastanti.

Un articolo recentemente pubblicato su Seminars in Cancer Biology ricorda che in generale bassi livelli di vitamina D sono legati a una maggiore incidenza di cancro e i dati più convincenti sono quelli che riguardano il tumore del colon-retto. Ancora più recentemente, a novembre 2020, sono stati pubblicati su JAMA Network Open i risultati dello studio VITAL, dai quali emerge che assumere supplementi a base di vitamina D riduce l’incidenza di tumori in stadio avanzato e che questo effetto è più forte in chi non è obeso. Ancora una volta, l’uso di integratori in persone già malate, e con malattia in stadi avanzati, non dice nulla sull’effetto nelle persone sane. Come si legge in un articolo pubblicato su Epidemiologic Reviews, per la maggior parte dei tumori restano ancora molti punti da chiarire prima di poter arrivare a prescrivere la vitamina D come strategia di prevenzione o per migliorare la sopravvivenza.

Dubbi sull’uso per Covid-19
La pandemia di Covid-19 ha ulteriormente rafforzato l’interesse dei medici e dei ricercatori nei confronti della vitamina D. In un commento pubblicato nel mese di agosto 2020 su Lancet Diabetes and Endocrinology si sottolinea infatti come le categorie di persone maggiormente a rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19 (quelle obese o in età avanzata) siano in molti casi le stesse in cui di solito si registra una carenza di vitamina D. Si tratta però, come in tutti i casi di correlazione, di ipotesi il cui possibile nesso di causa ed effetto è ancora da verificare. L’osservazione ha però spinto alcuni ricercatori a pensare che proprio la vitamina D possa avere un ruolo nella prevenzione e nel trattamento della malattia causata dal nuovo coronavirus.

In effetti, le conoscenze attuali sui meccanismi d’azione della vitamina D potrebbero sostenere l’ipotesi: la molecola è coinvolta nelle reazioni immunitarie contro i virus e inoltre regola le risposte antinfiammatorie in caso di malattie respiratorie. “È possibile che aumentare i livelli di vitamina D possa ridurre l’impatto del Covid-19, soprattutto nelle popolazioni dove i livelli sono in genere scarsi” concludono gli autori, sottolineando che la raccomandazione varrebbe per chi ha un livello di vitamina D particolarmente basso.

Sono diversi i risultati di studi già pubblicati o attualmente in corso per cercare di dare una risposta a queste domande. Tuttavia, non ci sono al momento dati sufficienti per raccomandare l’uso di supplementi di vitamina D per prevenire o trattare il Covid-19, come gli esperti del National Institute for Health and Care Excellence (NICE), nel Regno Unito, hanno scritto, a dicembre 2020, nelle linee guida redatte in base a tutti i più recenti studi su vitamina D e Covid-19. Tra le conclusioni si legge che e che è importante approfondire la conoscenza di questo tema attraverso nuovi studi.

Cosa ne pensano gli esperti? Molti concordano con questa posizione, altri invece non sono d’accordo e pensano che i potenziali vantaggi legati alla somministrazione di vitamina D in questa pandemia potrebbero superare i rischi limitati che questo tipo di integrazione porta con sé. Lo spiega un articolo pubblicato a gennaio 2021 su Lancet Diabetes & Endocrinology e lo ribadiscono i tanti commenti di esperti rilasciati al Science Media Centre inglese (un ente non profit autonomo che supporta il lavoro dei giornalisti fornendo opinioni di scienziati verificati e indipendenti) a dicembre, molti dei quali sono possibilisti, ma attendono il risultato di nuove ricerche.